mercoledì 7 gennaio 2015

Della giustizia e dell'equilibrio

Tra un libro e l’altro il 2015 che inizio in citazioni abita i versi della “giustizia”: della mente, della storia, dei tribunali. L’invito è a sfogliare Carofiglio e Fontana (meglio in quest’ordine).

Da Gianrico Carofiglio, La regola dell’equilibrio (Einaudi).

«- Ho pensato che prima era diverso, - ripresi - che questa maleducazione, questo livello di volgarità non c’erano, quando ho cominciato, più di vent’anni fa. Mi è parso di ricordare che i rapporti nell’ambiente fossero meno brutali, meno… volgari, appunto. Poi mi sono interrotto, mi sono pizzicato e mi sono detto che stavo rimbambendo, che stavo facendo quello che avevo sempre trovato patetico negli altri.
- Rimpiangere il passato?
- Già. Rimpiangere il passato come se fosse l’età dell’oro. Uno rimpiange la propria giovinezza e magari quando ci stava in mezzo pensava che fosse uno schifo» (p. 5).

«Lui non conosceva Scott Fitzgerald, ma l’adulto che sarebbe diventato un giorno lesse una frase che non avrebbe mai più dimenticato: “Una fondamentale qualità umana è la capacità di sostenere simultaneamente due idee opposte senza perdere la capacità di funzionare”. Ed è tutto qui» (p. 148).

«Questi discorsi sono un anestetico morale. Sfrutti le regole formali per sfuggire le responsabilità e il dovere di scegliere. È un vecchio trucco che usi da sempre. Ti riempi di bugie per giustificare a te stesso la tua vigliaccheria.
Tutti mentono. Chi dice di non farlo mai o è un cretino o è più bugiardo degli altri. La salute mentale consiste nel trovare un punto di equilibrio fra verità e menzogna. Pensare di dovere - e di potere - dire sempre la verità è un’allucinazione da dementi» (p. 248).

Da Giorgio Fontana, Morte di un uomo felice (Sellerio).

«Rimasto solo, pulì lo sputo con il fazzoletto e chiuse gli occhi, tremando di rabbia. Si sentiva completamente sfinito, sopraffatto dal senso di ingiustizia (un curioso, poetico paradosso). Lui era la dimostrazione che anche in Italia ce la si poteva fare: che anche il figlio di un operaio ammazzato dai fascisti, quelli veri, poteva studiare e diventare qualcuno. Era questo che capiva delle grandi ondate di protesta, quelle masse di ragazzi tanto diversi da lui che per strada, negli ultimi quindici anni, avevamo alzato pugni e cartelli per avere un mondo diverso. Ma non capiva perché molti di loro non fossero capaci di attendere, o di trasformare le cose con pazienza. Forse non ne avevano avuto le possibilità? O semplicemtne non le avevano viste?» (p. 67).

«Se avesse avuto il coraggio di aprire la bocca e cominciare, qualcuno lo avrebbe ascoltato: e più invecchiava, più coltivava l’idea che ascoltare un uomo significa cominciare a salvarlo» (p. 102).

«A un certo punto Colnaghi disse: “Lo sai che mia madre, quand’ero piccolo, aveva istituito per me e mia sorella una giornata dedicata solo alle scuse?”.
“Alle scuse?”.
“Lo faccio anche ora, per la verità. Comunque: un giorno all’anno ci si mette lì e si fa un elenco personalissimo di tutte le volte che pensiamo di avere sbagliato o fatto del male a qualcuno, e si domanda perdono a Dio. E naturalmente, si prende l’impegno di scusarsi anche con la persona offesa”.
“Non me l’avevi mai detto”.
“Non credo di averlo mai detto a nessuno. Però è una pratica interessante, non trovi?”.
“Insomma”.
“Da piccoli, per me e mia sorella, era una specie di ossessione. Era nostra madre a dirci quando e come farla. Non so perché te lo racconto, in effetti. Ma sarebbe bello che tutti, almeno una volta ogni tanto, si mettessero lì a elencare le proprie mancanze, con calma, e cercare di capire come porvi rimedio. No?”» (p. 231).

«Gli era sempre riuscito facile sistemare le cose, e vedere la bellezza negli ingranaggi bene addentellati, nei chiodi piantati secchi, nelle cerniere dei mobili che ruotavano alla perfezione: così come per la giustizia. Armonia, fatica, gioia: il compenso di qualcosa che era rotto e poteva essere aggiustato» (p. 250).

«E allora d’improvviso gli fu chiaro perché, da ragazzo, aveva scelto quella strada. Era talmente semplice, e come sempre aveva a che fare con il dolore: non con l’equità, o con qualche utopia, né con i piatti di un’ipotetica bilancia da pareggiare: alla fine si riduceva tutto solo e soltanto al dolore» (p. 253).