Caro Lettore,
anche oggi ho da proporti un piccolo spunto letterario che è poi una “pausa di riflessione”. Piccolo perché t’immagino in viaggio, accaldato e assolato. Pausa perché t’immagino spiaggiato. Ma di viaggio e di allontanamento voglio narrarti, hai dunque di che comprendermi. Di Viaggi e altri viaggi di Antonio Tabucchi (Feltrinelli), in particolare. Perché c’è modo e modo di veder le cose…
«Ouro Preto significa “Oro Nero”. Niente a che vedere con ciò che oggi l’espressione significa per noi. Il petrolio non c’entra: il nero si riferisce agli schiavi neri che lavoravano nelle miniere d’oro, robusta e gratuita mano d’opera che i portoghesi importarono dalle loro colonie africane (Angola, Guinea e Mozambico) visto che i nativi morivano con estrema facilità (l’indio, data l’esile, quasi femminea struttura fisica, non resisteva al pesante lavoro sottoterra). La monarchia portoghese, molto cattolica, nell’importazione fu assai confortata da una Bolla papale secondo la quale dei poveri selvaggi che adoravano i fiumi, le foreste e la volta celeste, ricevendo il battesimo dai padroni europei, potevano accedere al paradiso anche se con le catene alle caviglie, beatitudine di cui mai avrebbero goduto se restavano nelle loro foreste. E così gli schiavi furono portati in Brasile, tanti. E scavarono nelle miniere con braccia robuste. E si convertirono alla nuova fede, confidando in un dio che li salvasse dalla schiavitù e che per coincidenza era lo stesso di coloro che li avevano fatti schiavi.
Le chiese barocche più belle di Ouro Preto, come quella di Nossa Senhora do Pilar o quella di São Francisco de Assis o di Nossa Senhora da Conceição, furono costruite da quei “minatori”. Il disegno appartiene ovviamente ad architetti portoghesi o a un grande maestro locale come l’Aleijadinho, lo scultore lebbroso di Congonhas do Campo. Ma la messa in opera è di quelle anonime braccia africane (“al nero”: non c’è espressione migliore per dirlo).
Si racconta che per fare offerte al nuovo dio salvatore, dato che venivano fatti uscire nudi dalle miniere e subivano un’ispezione rettale, gli schiavi cospargessero il cuoio capelluto di polvere aurifera ben celata dai capelli crespi. A casa, le donne lavavano le teste degli uomini in un bacile, raccoglievano la polvere d’oro e la donavano alle chiese per decorare gli altari e i soffitti. Gli sfavillanti interni delle chiese di Ouro Preto che ora state ammirando da casuali viaggiatori quali siete (e quali siamo); quegli altari, gli angeli e i cori barocchi intagliati nel legno e ricoperti di una foglia di oro finissimo furono fatti in questo modo. Forse è il momento di sedere (o inginocchiarsi, dipende dal viaggiatore) sulla panca di una di queste chiese. Pausa di riflessione» (p. 104).
anche oggi ho da proporti un piccolo spunto letterario che è poi una “pausa di riflessione”. Piccolo perché t’immagino in viaggio, accaldato e assolato. Pausa perché t’immagino spiaggiato. Ma di viaggio e di allontanamento voglio narrarti, hai dunque di che comprendermi. Di Viaggi e altri viaggi di Antonio Tabucchi (Feltrinelli), in particolare. Perché c’è modo e modo di veder le cose…
«Ouro Preto significa “Oro Nero”. Niente a che vedere con ciò che oggi l’espressione significa per noi. Il petrolio non c’entra: il nero si riferisce agli schiavi neri che lavoravano nelle miniere d’oro, robusta e gratuita mano d’opera che i portoghesi importarono dalle loro colonie africane (Angola, Guinea e Mozambico) visto che i nativi morivano con estrema facilità (l’indio, data l’esile, quasi femminea struttura fisica, non resisteva al pesante lavoro sottoterra). La monarchia portoghese, molto cattolica, nell’importazione fu assai confortata da una Bolla papale secondo la quale dei poveri selvaggi che adoravano i fiumi, le foreste e la volta celeste, ricevendo il battesimo dai padroni europei, potevano accedere al paradiso anche se con le catene alle caviglie, beatitudine di cui mai avrebbero goduto se restavano nelle loro foreste. E così gli schiavi furono portati in Brasile, tanti. E scavarono nelle miniere con braccia robuste. E si convertirono alla nuova fede, confidando in un dio che li salvasse dalla schiavitù e che per coincidenza era lo stesso di coloro che li avevano fatti schiavi.
Le chiese barocche più belle di Ouro Preto, come quella di Nossa Senhora do Pilar o quella di São Francisco de Assis o di Nossa Senhora da Conceição, furono costruite da quei “minatori”. Il disegno appartiene ovviamente ad architetti portoghesi o a un grande maestro locale come l’Aleijadinho, lo scultore lebbroso di Congonhas do Campo. Ma la messa in opera è di quelle anonime braccia africane (“al nero”: non c’è espressione migliore per dirlo).
Si racconta che per fare offerte al nuovo dio salvatore, dato che venivano fatti uscire nudi dalle miniere e subivano un’ispezione rettale, gli schiavi cospargessero il cuoio capelluto di polvere aurifera ben celata dai capelli crespi. A casa, le donne lavavano le teste degli uomini in un bacile, raccoglievano la polvere d’oro e la donavano alle chiese per decorare gli altari e i soffitti. Gli sfavillanti interni delle chiese di Ouro Preto che ora state ammirando da casuali viaggiatori quali siete (e quali siamo); quegli altari, gli angeli e i cori barocchi intagliati nel legno e ricoperti di una foglia di oro finissimo furono fatti in questo modo. Forse è il momento di sedere (o inginocchiarsi, dipende dal viaggiatore) sulla panca di una di queste chiese. Pausa di riflessione» (p. 104).