venerdì 30 settembre 2011

Discorso sulla servitù volontaria

Caro Lettore,
voglio chiudere il mese di settembre 2011 con l’invito a infilarti in un buon libro che di questi tempi è come aria di montagna: il Discorso sulla servitù volontaria di Etienne De La Boétie come pubblicato pochi mesi fa da Chiarelettere editore.

«Colui che vi domina così tanto ha solo due occhi, due mani, un corpo, non ha niente di diverso da quanto ha il più piccolo uomo del grande infinito numero delle vostre città, eccetto il vantaggio che voi gli fornite per distruggervi» (p. 13).

«Ma arrivo ora a un punto che costituisce a mio avviso la molla e il segreto della dominazione, il sostegno e il fondamento della tirannide. Chi pensa che le alabarde, le sentinelle e i posti di guardia difendano il tiranno, a mio giudizio si sbaglia di grosso. Credo che egli se ne serva più per il cerimoniale e come spauracchio che non per la fiducia che vi ripone. […] Non sono gli squadroni a cavallo, non sono le schiere dei fanti, non sono le armi che difendono il tiranno: non lo si crederà subito, ma senza dubbio è così. Sono sempre quattro o cinque che mantengono il tiranno; quattro o cinque che gli tengono in schiavitù tutto il paese; è sempre stato così: cinque o sei individui sono ascoltati dal tiranno, o perché si son fatti avanti da soli, o perché sono stati chiamati da lui come complici delle sue crudeltà, compagni dei suoi piaceri, ruffiani delle sue dissolutezze e soci delle sue ruberie. Quei sei consigliano così bene il capo da far pesare sulla società non solo le sue malvagità ma anche le loro, quei sei hanno poi sotto di loro altri seicento approfittatori, che si comportano nei loro riguardi così come essi stessi fanno col tiranno. Quei seicento ne hanno sotto di loro seimila cui fanno fare carriera, ai quali fanno avere il governo delle province o il controllo del denaro, affinché essi diano libero corso alla loro avarizia e crudeltà, e le realizzino al momento opportuno, compiendo peraltro tali malefatte da non poter durare senza la loro protezione, sfuggendo grazie a loro alle leggi e alla pena. Dopo costoro, ne viene una lunga schiera, e chi vorrà divertirsi a sbrogliare questa rete vedrà che non sono seimila, ma centomila, ma milioni che grazie a questa corda sono attaccati al tiranno, e si mantengono a essa, come secondo Omero Giove si vanta di poter tirare a sé tutti gli dei dando uno strattone a una catena» (p. 44).

«Il contadino e l’artigiano, per quanto siano asserviti, dopo aver fatto ciò che gli è stato detto, sono liberi. Ma quelli che coi loro intrighi mendicano il favore del tiranno gli sono sempre sotto gli occhi: non basta che facciano quel ch’egli dice, ma devono pensare come lui vuole e spesso per soddisfarlo precedere addirittura i suoi pensieri. Non basta che obbediscano, devono compiacerlo, devono darsi da fare, tormentarsi, ammazzarsi per occuparsi dei suoi affari; e inoltre devono godere del suo piacere, abbandonare i propri gusti per quelli del tiranno, forzare il proprio temperamento, spogliarsi della propria natura, stare sempre attenti alle parole, alla voce, ai segni e agli occhi: non devono avere occhio, piede, mano che non stia sempre in agguato per spiare i suoi desideri e scoprire i suoi pensieri. E questo vuol dire vivere felici? Si chiama questo vivere?» (p. 48).

«Senza dubbio perciò il tiranno non è mai amato e non ama. L’amicizia è un nome sacro, una cosa santa: esiste solo tra uomini dabbene e nasce solo da una reciproca stima. Non si mantiene coi benefici ma con la buona vita» (p. 53).