lunedì 22 agosto 2011

Italiani!

Caro Lettore,
approfitto dei picchi di calura di questi giorni per spronarti ancora con un libro  su alcune considerazioni in merito all’essere italiani. Il volume di riferimento è Le famiglie italiane di Luigi Cannari e Giovanni D’Alessio (Il Mulino), da leggere e conservare.
«In generale gli indicatori di benessere raccolti tramite indagini mettono in evidenza che la felicità, soprattutto nelle società più avanzate, è correlata con il reddito e la ricchezza meno di quanto si possa pensare; molto importanti risultano aspetti personali e familiari, come la salute, e soprattutto problemi di invalidità (propri o di altri soggetti in famiglia), la vedovanza, la disoccupazione, lo sradicamento dalla propria terra di origine. Dalle analisi comparative a livello internazionale risultano inoltre rilevanti le situazioni di conflitto nonché aspetti istituzionali e culturali, come ad esempio la democrazia, il grado di libertà economica, le radici religiose prevalenti, l’apertura culturale e la partecipazione sociale» (p. 22).
«Nella pratica, la misurazione della povertà relativa si basa su una soglia di povertà che è commisurata al reddito o alla spesa per consumi dell’intera popolazione. Il criterio più utilizzato è il cosiddetto Standard internazionale per la linea di povertà, secondo il quale si definisce povera una famiglia di 2 componenti che ha un reddito (o una spesa per i consumi) inferiore alla media del reddito (della spesa) pro capite della popolazione. In sostanza, una famiglia di 2 persone è definita povera se vive con le risorse di cui normalmente dispone una sola persona. Talvolta invece della media si prende in considerazione la mediana, ovvero quel valore al di sotto del quale si colloca il reddito (o la spesa) del 50% delle famiglie» (p. 59).
«Se è l’uomo che lavora, un aumento dei salari tende ad accrescere il numero di figli desiderato, perché la famiglia ha più disponibilità economiche. Se invece è la donna che lavora, l’effetto sulla fecondità della famiglia può essere ambiguo. All’effetto dovuto all’aumento del reddito disponibile fa da contrappeso un effetto di sostituzione, negativo sulla fecondità, perché aumenta il costo-opportunità di dedicarsi ai figli. Secondo gli studi empirici, questo secondo effetto tende a prevalere; in altri termini un aumento dei salari che le donne possono percepire nel mercato del lavoro accresce la partecipazione femminile e riduce la natalità mentre un aumento dei salari maschili ha un effetto positivo sul reddito e accresce per questa via il numero di figli desiderato. Secondo queste analisi, l’allontanamento dal modello di famiglia tradizionale, nel quale l’uomo costituisce l’unico o comunque il principale percettore di reddito, ha contribuito al calo della fecondità. Studi più recenti mostrano però che al di sopra di certi livelli di reddito guadagnato dalle donne, il numero di figli torna a crescere, risentendo della possibilità di sostenere i costi associati ai servizi per l’infanzia» (p. 68).
«[…] vari fattori inducono a posporre, prima, e a ridurre, poi, l’attività riproduttiva (la cosiddetta sindrome del ritardo). La decisione di avere figli è presa dopo aver completato il percorso formativo (che in Italia, soprattutto per l’istruzione universitaria, è nei fatti assai lungo), aver conseguito un lavoro stabile (circostanza ostacolata dagli elevati tassi di disoccupazione giovanile nonché dal diffondersi delle tipologie di lavoro precario), trovato una casa e lasciato la famiglia d’origine (con un mercato degli affitti ancora poco fluido e prezzi relativamente elevati rispetto al reddito medio). Ognuna di queste azioni richiede tempo; la decisione di avere figli viene dunque presa in una fase piuttosto avanzata del periodo riproduttivo» (p. 70).
«Oggi come negli anni Cinquanta, le differenze di istruzione e di strato sociale sembrano avere un ruolo significativo nello spiegare la propensione alla lettura degli individui. […] Peraltro, le abitudini alla lettura risentono fortemente del clima familiare e tendono dunque a essere persistenti attraverso le generazioni: avere genitori che leggono libri aumenta di molto la probabilità dei ragazzi di divenire essi stessi lettori. È inoltre degno di menzione il fatto che, nel 2006, più del 12% delle famiglie non possegga neanche un libro in casa» (p. 80).
«Secondo una delle prima indagini della Banca d’Italia, il valore di una casa di residenza nel 1966 era mediamente di quasi 5 milioni di lire, l’equivalente di circa 45.000 euro di oggi. In termini assoluti, dunque, il valore medio delle abitazioni di residenza a prezzi costanti è cresciuto di quasi 5 volte, essendo il valore medio delle case di residenza nel 2008 pari a circa 210.000 euro» (p. 87).
«Nel complesso della popolazione mondiale, tra il 1950-1955 e il 2005-2010 la vita media dei maschi è aumentata da 45,2 a 65,4 anni, quella delle femmine da 48 a 68,6 anni» (p. 92).
«Le norme sociali e le istituzioni che ne derivano (e che a loro volta influenzano i comportamenti degli individui) sono il riflesso della storia passata. In una società che ha fatto proprie norme di onestà e di correttezza, chi non rispetta gli accordi verrà punito e sarà quindi incentivato a comportarsi correttamente; al contrario, in una società dove prevale l’opportunismo, è colui che si comporta onestamente che tenderà a essere svantaggiato» (p. 102).
«Nel complesso, in Italia il capitale sociale è scarso. Secondo un indicatore riportato in uno studio della Commissione europea, che valuta congiuntamente sia il livello di fiducia tra i cittadini, sia le attività di volontariato, l’Italia occupa la posizione più bassa tra i paesi europei con i quali siamo soliti compararci» (p. 105).
«Nel 1948 la condizione di infelicità era più diffusa tra gli operai (26%), gli artigiani e i braccianti agricoli (rispettivamente 16 e 20%) che tra i dirigenti, i datori di lavoro e i conduttori agricoli (circa il 10%); nel 2008 sono i pensionati e i disoccupati a presentare i più alti livelli di infelicità (11,4 e 14%); a distanza seguono gli operai (7,6%)» (p. 123).