Caro Lettore,
la crisi è arrivata. Adesso si sente, si vede. Non è più una voce al telegiornale. Sono gli amici in cassa integrazione. Sono le scuole che annullano i bandi. Le pubbliche amministrazioni che rinunciano alla cultura, scuotendo la testa. Sono i laboratori teatrali e musicali che non hanno più un costo. Che non hanno più un prezzo. Che valgono meno del tempo che hanno richiesto solo per essere immaginati. Vivo nell’inflazione delle idee. Penso una cosa e so già che pochi istanti dopo, solo averla pensata, mi sarà costato più che il compenso di una sua improbabile realizzazione. Su cui devono mangiare in tanti. Paradossale.
Sono nato in tempi di confine ma non invidio i giovani di oggi. Quando ho iniziato il Conservatorio bastava diplomarsi per trovare un lavoro serio, onesto, ben pagato. Quando mi sono diplomato non c’era più nulla ma c’era speranza. Frequentare il Conservatorio oggi è solo la tappa, una delle tante, di un cammino incerto, contradditorio. Avvilente.
Quando mi sono laureato le opzioni per gli umanisti erano già più che ridotte ma ho seguito i miei studi incoraggiato da borse di studio generose, leggendo molto, incontrando docenti animati da antichi splendori. Non ho mai avuto paura del futuro. Non ho mai temuto che non ci fosse una stanza per ospitarmi. Chi studia oggi deve avere innanzitutto un borsello chiacchierone, quindi voglia di perder tempo. Oppure mettersi lo zaino in spalla. E non dev’essere donna. Non ambire a coniugare carriera e figli perché per questo non ci sarà rispetto, né contratto.
Nella mia scuola elementare c’era una sola insegnante, eccelsa, ma parlavamo tutti la stessa lingua ed avevamo nomi che bastava saperli pronunciare per saperli scrivere. Il mondo è cambiato. È cresciuto. Ed è la mia generazione, ora insegnante, ora governante (chi c’è riuscito), a non vederne i segni. Ad occultarli.
Mi par quasi che stia in questo essere generazione di confini, il problema. È l’uomo adulto, il saggio, il maturo, il vecchio, che non dispensa più consigli e benedizioni ma davanti al deserto prosciuga il fiume - chi ha mano all'acqua - ed ogni risorsa prima di mettersi in cammino. Di varcare il confine. Arriverà forse a posare il piede su un’altra sponda ma che ne sarà dei suoi fratelli? Dei suoi figli? Col fiume in secca, col grano tagliato? I piccoli, le donne, i granelli del futuro?
Potremmo far meglio. Avremmo potuto farlo. Ma ognuno ha il suo confine. Ognuno ha il suo fiume da prosciugare. Riusciranno a perdonarci le nuove generazioni dei corpi e delle menti, i loro, che stiamo sacrificando per il nostro piacere e la nostra meschina sopravvivenza? E se fossimo proprio noi a non sopravvivere? Se quell’acqua fosse già imbevibile?
la crisi è arrivata. Adesso si sente, si vede. Non è più una voce al telegiornale. Sono gli amici in cassa integrazione. Sono le scuole che annullano i bandi. Le pubbliche amministrazioni che rinunciano alla cultura, scuotendo la testa. Sono i laboratori teatrali e musicali che non hanno più un costo. Che non hanno più un prezzo. Che valgono meno del tempo che hanno richiesto solo per essere immaginati. Vivo nell’inflazione delle idee. Penso una cosa e so già che pochi istanti dopo, solo averla pensata, mi sarà costato più che il compenso di una sua improbabile realizzazione. Su cui devono mangiare in tanti. Paradossale.
Sono nato in tempi di confine ma non invidio i giovani di oggi. Quando ho iniziato il Conservatorio bastava diplomarsi per trovare un lavoro serio, onesto, ben pagato. Quando mi sono diplomato non c’era più nulla ma c’era speranza. Frequentare il Conservatorio oggi è solo la tappa, una delle tante, di un cammino incerto, contradditorio. Avvilente.
Quando mi sono laureato le opzioni per gli umanisti erano già più che ridotte ma ho seguito i miei studi incoraggiato da borse di studio generose, leggendo molto, incontrando docenti animati da antichi splendori. Non ho mai avuto paura del futuro. Non ho mai temuto che non ci fosse una stanza per ospitarmi. Chi studia oggi deve avere innanzitutto un borsello chiacchierone, quindi voglia di perder tempo. Oppure mettersi lo zaino in spalla. E non dev’essere donna. Non ambire a coniugare carriera e figli perché per questo non ci sarà rispetto, né contratto.
Nella mia scuola elementare c’era una sola insegnante, eccelsa, ma parlavamo tutti la stessa lingua ed avevamo nomi che bastava saperli pronunciare per saperli scrivere. Il mondo è cambiato. È cresciuto. Ed è la mia generazione, ora insegnante, ora governante (chi c’è riuscito), a non vederne i segni. Ad occultarli.
Mi par quasi che stia in questo essere generazione di confini, il problema. È l’uomo adulto, il saggio, il maturo, il vecchio, che non dispensa più consigli e benedizioni ma davanti al deserto prosciuga il fiume - chi ha mano all'acqua - ed ogni risorsa prima di mettersi in cammino. Di varcare il confine. Arriverà forse a posare il piede su un’altra sponda ma che ne sarà dei suoi fratelli? Dei suoi figli? Col fiume in secca, col grano tagliato? I piccoli, le donne, i granelli del futuro?
Potremmo far meglio. Avremmo potuto farlo. Ma ognuno ha il suo confine. Ognuno ha il suo fiume da prosciugare. Riusciranno a perdonarci le nuove generazioni dei corpi e delle menti, i loro, che stiamo sacrificando per il nostro piacere e la nostra meschina sopravvivenza? E se fossimo proprio noi a non sopravvivere? Se quell’acqua fosse già imbevibile?