«Questa civiltà, concluderanno i pensatori futuri, amava la birra. Aveva una preferenza per i prodotti di carta come ricettacoli di seme e altre secrezioni corporee. Soffriva di emorroidi, ogni tanto incontinenza e disfunzioni erettili sconosciute alle generazioni seguenti. Pensava molto al transito intestinale. Il sesso era un’attività che isolava il più possibile dalla vita quotidiana. Non gradiva i corpi metallici estranei, tentennava fra stabilità e possibilità/cambiamento, come evidenziato dalle sue abitazioni, in buono stato ma spesso abbandonate, mentre certe altre sembrano fatte apposta per durare al massimo cinque anni. […] Ma i futuri ricercatori noteranno anche […] quanto abbiamo vissuto, accumulato e prosperato, quanto abbiamo goduto e patito per cose che c’erano già! E quanto poco abbiamo inventato! E quanto poco abbiamo dovuto inventare, dal momento che potevamo avere tutto quello che volevamo - dai vecchi dischi ai ragazzini - dicendo semplicemente un numero e una data di scadenza a una voce elettronica, e spaparanzandoci poi ad aspettare il buon furgone marrone della Ups. La nostra inventiva, risulterà chiaro, si riduceva tutta al dire sì e no, come accendere e spegnere la luce. I futuri studiosi potranno concludere anche se mai abbiamo pensato di provare qualcosa di diverso: vivere nell’Allahgash e nutrirci solo di tuberi; diventare mistici, fare voto di povertà e chiedere l’elemosina sul ciglio della strada a Taliganga; prendere sei mogli, smettere di tagliarci i capelli e di lavarci e rintanarci in un bunker nello Utah; in altri termini, se mai abbiamo preso in considerazione di strisciare fuori dalla scatola per vedere che cosa c’è là fuori, dobbiamo esserci resi conto che rischiavamo l’isolamento e lo sguardo minaccioso del mondo, abbiamo capito che non potevamo reggerlo a lungo, e abbiamo detto no grazie».
Richard Ford, Lo stato delle cose (Feltrinelli), p. 54.
Richard Ford, Lo stato delle cose (Feltrinelli), p. 54.