Caro Lettore,
inizierò così:
«Cos’è che mi ha dato la spinta? Penso che la maggior parte delle persone creative desiderino esprimere la propria gratitudine per aver potuto beneficiare dell’opera di chi ci ha preceduto. Non sono stato io a inventare la lingua o la matematica che uso. Produco poco di quello che mangio, nulla di quello che indosso. Ogni mia realizzazione è debitrice ad altri membri della nostra specie, sulle cui spalle poggiamo i nostri piedi. E una parte cospicua del nostro animo desidera restituire qualcosa alla nostra specie e aggiungere qualcosa al percorso. Si tratta di provare a esprimere qualcosa nell’unico modo in cui alla maggior parte è dato conoscere, perché non sappiamo scrivere le canzoni di Bob Dylan o le opere teatrali di Tom Stoppard. Cerchiamo di usare i talenti che abbiamo per esprimere il nostro sentire più profondo, per esternare la nostra ammirazione per tutti i contributi di chi è venuto prima di noi, e per aggiungere qualcosa a quel percorso. È questo che mi ha dato la spinta».
Dove ho trovato queste parole? In Steve Jobs di Walter Isaacson (Mondadori, 2011) alla pagina 607.
Che viaggio straordinario, un libro, questo libro! Ti dirò: straordinario non tanto e non solo per la scoperta e/o il disvelamento del genio Jobs, quanto per l’immersione provocata nel precipizio dei miei 40 anni. Immersione senza bombole e con uno specchio in mano nel macrocosmo delle avventure che mentre informatizzavano l’America e trasformavano l’Italia attraversavano la mia esperienza scolastica, esperienziale, umana con sinapsi inusitate.
Aggrappato al mio primo IBM dallo schermo blu sono risalito in alto trattenendomi ad ogni singolo pezzo di materia informatica acquistato e digerito, mentre l'iMac, lo stravagante uovo con la maniglia, mi passava accanto, m’incuriosiva ma non era alla mia portata. E leggere tutto questo, per la prima volta, come seduto nel giardino di casa Jobs, è stato… esaltante. Perdinci, ho finito di leggere con un solo desiderio ed una sola parola in mente: perfezione. Ed ho riguardato i miei vecchi cellulari con gli occhi sgranati.
Finché, arrivati a pagina 608, si torna in Italia ed è ora di pranzo: spaghetti al pomodoro, un bicchiere di vino rosso e un paio di bollettini da pagare alle poste (ora di fila acclusa). Ma con l’abitudine di una sana dieta mediterranea, e quella burocrazia che ci fa da scarpe e da calzini, Steve Jobs sarebbe stato lo stesso Steve… lo stesso Jobs? Cosa conviene perdere, a questo mondo, per essere proprio quel quanto che questo mondo non vorrebbe perdere?
inizierò così:
«Cos’è che mi ha dato la spinta? Penso che la maggior parte delle persone creative desiderino esprimere la propria gratitudine per aver potuto beneficiare dell’opera di chi ci ha preceduto. Non sono stato io a inventare la lingua o la matematica che uso. Produco poco di quello che mangio, nulla di quello che indosso. Ogni mia realizzazione è debitrice ad altri membri della nostra specie, sulle cui spalle poggiamo i nostri piedi. E una parte cospicua del nostro animo desidera restituire qualcosa alla nostra specie e aggiungere qualcosa al percorso. Si tratta di provare a esprimere qualcosa nell’unico modo in cui alla maggior parte è dato conoscere, perché non sappiamo scrivere le canzoni di Bob Dylan o le opere teatrali di Tom Stoppard. Cerchiamo di usare i talenti che abbiamo per esprimere il nostro sentire più profondo, per esternare la nostra ammirazione per tutti i contributi di chi è venuto prima di noi, e per aggiungere qualcosa a quel percorso. È questo che mi ha dato la spinta».
Dove ho trovato queste parole? In Steve Jobs di Walter Isaacson (Mondadori, 2011) alla pagina 607.
Che viaggio straordinario, un libro, questo libro! Ti dirò: straordinario non tanto e non solo per la scoperta e/o il disvelamento del genio Jobs, quanto per l’immersione provocata nel precipizio dei miei 40 anni. Immersione senza bombole e con uno specchio in mano nel macrocosmo delle avventure che mentre informatizzavano l’America e trasformavano l’Italia attraversavano la mia esperienza scolastica, esperienziale, umana con sinapsi inusitate.
Aggrappato al mio primo IBM dallo schermo blu sono risalito in alto trattenendomi ad ogni singolo pezzo di materia informatica acquistato e digerito, mentre l'iMac, lo stravagante uovo con la maniglia, mi passava accanto, m’incuriosiva ma non era alla mia portata. E leggere tutto questo, per la prima volta, come seduto nel giardino di casa Jobs, è stato… esaltante. Perdinci, ho finito di leggere con un solo desiderio ed una sola parola in mente: perfezione. Ed ho riguardato i miei vecchi cellulari con gli occhi sgranati.
Finché, arrivati a pagina 608, si torna in Italia ed è ora di pranzo: spaghetti al pomodoro, un bicchiere di vino rosso e un paio di bollettini da pagare alle poste (ora di fila acclusa). Ma con l’abitudine di una sana dieta mediterranea, e quella burocrazia che ci fa da scarpe e da calzini, Steve Jobs sarebbe stato lo stesso Steve… lo stesso Jobs? Cosa conviene perdere, a questo mondo, per essere proprio quel quanto che questo mondo non vorrebbe perdere?