Lascio un consiglio di lettura per questo tempo senza memoria come l'umanità che ne fa la storia. Il libraio di Gaza di Rachid Benzine (Corbaccio, 2025).
(Pag. 27) Io però li aspetto. Aspetto tutti i miei lettori. Immaginari o reali, non ha importanza. Non sono solo. Le parole dei libri lacerano tutti i silenzi. Si impongono. Il lettore è un prigioniero consenziente, aggrappato all'illusione che a ogni pagina che volterà sarà più libero. E invece si perde sempre di più, viene assorbito, fino a diventare incapace di districarsi in questo labirinto di parole. Eppure, proprio questo supplizio che mi sono scelto mi ricorda perché sono qui, in questa bottega, ad aspettare. In tutti i casi, a Gaza si aspetta sempre qualcosa. Tutti aspettano qualcosa.
(Pagg. 110 e 111) La mattina dopo, le ombre delle rovine si allungano come spettri mentre piovono goccioloni sulla città. S'infrangono senza pudore sulle lamiere arrugginite e risuonano come preghiere mancate. Le nuvole si accumulano, scure e gonfie di rancore.
Qual è il crimine di Gaza? Qui, la pioggia non purifica, finisce per insudiciare di più, coprendo i vicoli di un fango denso, spietato. Cancellando i passi, dissolve le tracce dei vivi e dei morti, s'insinua nelle fessure dei muri e dei cuori, raffredda l'esile calore che vi si aggrappa. Ogni lacrima caduta dal cielo sembra portare l'oppressione di una tristezza troppo pesante per questo mondo. Eppure, nonostante tutto, questa pioggia si lascia sfuggire, talvolta, una bellezza scandalosa, proprio dove si attarda su un vetro incrinato. In questi fugaci bagliori, Gaza sembra un gioiello frantumato, ammaccato di miseria e di luce. Come se Dio stesso, colto da uno strano rimorso, tentasse di offrire un ultimo splendore prima dell'oscurità.
Qual è il crimine di Gaza? Qui, la pioggia non purifica, finisce per insudiciare di più, coprendo i vicoli di un fango denso, spietato. Cancellando i passi, dissolve le tracce dei vivi e dei morti, s'insinua nelle fessure dei muri e dei cuori, raffredda l'esile calore che vi si aggrappa. Ogni lacrima caduta dal cielo sembra portare l'oppressione di una tristezza troppo pesante per questo mondo. Eppure, nonostante tutto, questa pioggia si lascia sfuggire, talvolta, una bellezza scandalosa, proprio dove si attarda su un vetro incrinato. In questi fugaci bagliori, Gaza sembra un gioiello frantumato, ammaccato di miseria e di luce. Come se Dio stesso, colto da uno strano rimorso, tentasse di offrire un ultimo splendore prima dell'oscurità.
(Pag. 113) È più facile parlare degli orrori del mondo che della bellezza delle cose. Non ci crede? Come esprimere la meraviglia davanti a un neonato? Come essere all'altezza della grazia e della tenerezza di un bambino che si sveglia? Come ritornare su quello che ci è passato davanti, i giorni e le notti, la gioia nell'oppressione, la felicità del nostro focolare? Non lo so, ora che tutto è scomparso. Ora che la sabbia si è dissolta. Qualcuno ha scritto, un giorno, che si riconosce la felicità dal rumore che fa andandosene.
(Pagg. 115-118) Dai tempi di Jabaliya, aveva conservato una passione per il teatro, che sperava di poter trasmettere ad altri. Voleva promuovere i nostri ideali attraverso la scena e aveva creato una troupe amatoriale con i ragazzi delle tendopoli. Ne parlava come di un'urgenza, qualcosa di inderogabile.
Aprire la gente a tutte le culture, ecco cosa le stava a cuore. E così, sapeva allestire con la stessa bravura Il sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, o un'opera di Brecht o di lonesco. Molto tempo dopo, negli anni Novanta, con i suoi amici portò in scena un'opera di Wole Soyinka.
Voleva mostrare ai bambini che era possibile reinventare il mondo. Che i loro corpi potevano diventare linguaggio. Che potevano davvero essere dei re, degli eroi, dei pensatori, anche in mezzo alle macerie.
Era la loro regista, la loro guida in quel viaggio immaginario, nel quale il teatro era una forma di verità. Un modo per diventare se stessi impersonando qualcun altro. Per lei, l'arte poteva rivelare tutto, anche l'invisibile.
Ora che non c'è più, e il suo ricordo s'inabissa nella voragine della sua assenza, ogni giorno faccio l'inventario di tutto quello che lei è stata, stilando in questo taccuino logoro elenchi nei quali poi mi immergo per sentirla ancora ridere.
Hiam era:
- un vestito di cotone azzurro che indossava spesso;
- una cicatrice alla base del pollice destro;
- un modo di camminare, veloce, quasi frettoloso;
- un odore di sapone all'olio d'oliva;
- dita abili che cucivano lenzuola;
- risate;
- una canzone dei Sabreen, che lei canticchiava in cucina;
- il suo sguardo alla nascita di nostra figlia;
- il suo stetoscopio attorno al collo, e la sua camicetta.
E ora è un'assenza che si estende, che dilaga, che s'infila ovunque. Ho smesso di cercarla, mi lascio invadere da quello che ha lasciato: ricordi, frasi interrotte. Forse non è andata via. Forse è diventata il vuoto che mi circonda, quel profilo invisibile che dà forma alla mia quotidianità. E ogni volta che respiro, è il suo fiato che lei mi offre, come se la sua assenza fosse diventa ta il tessuto della mia vita. Lei non c'è più, ma continua a impregnare ogni cosa. Le ombre che scivolano sui muri al crepuscolo, il silenzio che riempie le mie notti da quando se n'è andata, il vento che soffia tra le case, le grida dei bambini che giocano. In fondo, non so se l'ho perduta o se sto trattenendola. Forse entrambe le cose.
Ma so che se continuerò a parlare di lei, a scrivere di lei, lei non potrà mai scomparire completamente. Credo che avesse ragione: io parlo troppo. E allora le chiedo di compatirmi, Julien, se non taccio e voglio farla rivivere per lei. E chiedo che anche lei possa perdonarmi. 'Noi siamo gli specchi infranti di coloro che ci hanno generato' ha scritto Jean Genet.
(Pag. 122) Non ho perdonato, ma so che esistono dei giusti. Che la pace impossibile è il dolore condiviso dei giusti da entrambe le parti.
(Pag. 126) La maggior parte dei libri che leggo e rileggo, li ho scoperti in carcere. Ognuno racconta almeno un anno della mia reclusione. E li rileggo sia per ricordare sia per comprenderli. Un grande libro è come un pozzo senza fondo. Enigmi irrisolti, e dietro la storia, un punto cieco. E a volerlo illuminare ci si perde, bisogna invece prenderlo per quello che è: la benedizione di un mistero. Capisce? Sono sicuro di sì. I libri che si amano sono quelli che non si sono compresi, o che si credeva di aver compreso ma poi, rileggendoli, si scopre che avevano un altro senso, un'altra sfaccettatura, una parte inesplorata.
(Pagg. 128-131) Spesso invisibili, vivi o morti, i tuoi genitori ti accompagnano in ogni istante della tua esistenza, senza che tu te ne renda conto. Come una prova, come un rimpianto che porterai dentro di te per tutta la vita. Non si guarisce dalla loro assenza.
Si muore ogni giorno un po' di più. I miei erano e saranno sempre una fonte dalla quale traggo la forza di risollevarmi. Mio padre era il silenzio, mia madre il rumore. E io li guardavo, ascoltavo, imprimevo nella mia mente. C'era in loro quella specie di malinconia, simile alla saudade di Fernando Pessoa. Dal loro cuore appesantito dagli anni, dalle perdite e dai sacrifici, la lezione delle tenebre arrivava ormai soltanto per accenni.
Con il passare del tempo, mio padre era diventato curvo. Reggeva il peso invisibile di tante battaglie perdute. Il suo volto segnato dal sole, dal vento e dalle onde era soltanto un paesaggio di ombre. Le sue rughe profonde tracciavano percorsi verso una memoria che non si raccontava più da tanto tempo. Spesso i suoi occhi sembravano guardare oltre il visibile, come se cercasse qualcosa che nessun altro poteva vedere: un ricordo precedente l'esilio, una promessa lontana. Forse una giustizia divina. Non voleva più saperne di parole inutili, di gesti superflui. Ogni cosa che faceva aveva uno scopo preciso: riparare una porta che non si chiudeva più, rinforzare un muro che minacciava di crollare, piantare un albero che rischiava di non sopravvivere al bombardamento successivo, ma piantarlo ugualmente. Tutto in lui era azione, necessità. Era metodico, quasi ossessionato dai dettagli. La mattina si lisciava i capelli con l'acqua, un gesto automatico, che ripeteva da decenni. Quando si infilava i sandali, li sistemava con cura.
Trovava il modo di dirci che ci amava. Lo capivamo dal suo alzarsi prima dell'alba per farci trovare un po' di calore, dai suoi incoraggiamenti ripetuti per vederci studiare, crescere, partire. Fu questo linguaggio a insegnarmi l'amore. È quello che si riesce a udire nei silenzi.
Mia madre era spesso sull'orlo dell'esplosione, ma quel vulcano era avvolto dalla dolcezza. Moto perpetuo, era sempre in piedi, sempre indaffarata. Piegava e dispiegava gli stessi panni, asciugava mille volte le medesime stoviglie, come se l'attività potesse scongiurare la stanchezza, l'attesa. Anche quando faceva cuocere il pane su una piastra in mezzo alle braci, doveva girarlo e rigirarlo in continuazione. Era la custode di un fuoco ancestrale, che riscaldava l'anima, oltre al corpo. Un po' magica come tutte le madri, aveva quella strana capacità di riempire una stanza, anche quando non c'era. A volte canticchiava, una melopea che si elevava come un'orazione nell'aria densa di polvere. Era un canto senza parole, né salmodia coranica, sé canzone profana. Forse un'eco della sua infanzia.
Di quando le loro terre erano ancora fertili e libere.
Molti ricordi precisi che ho dei miei genitori li devo a Hafez che, dopo la loro morte, scrisse pazientemente tutto quello che sapeva di loro in due quaderni diversi.
Poi me li consegnò. Parole per esprimere la sua attenzione e il suo amore. Tutti quei dettagli che a me erano sfuggiti.
(Pag. 136) Da sessantasei anni viviamo questa lotta, non abbiamo conosciuto altro, e siamo ancora qui. Fantasmi, ogni giorno un po più invisibili agli altri. E a noi stessi. Come lo siamo da sempre agli occhi del mondo.
(Pagg. 115-118) Dai tempi di Jabaliya, aveva conservato una passione per il teatro, che sperava di poter trasmettere ad altri. Voleva promuovere i nostri ideali attraverso la scena e aveva creato una troupe amatoriale con i ragazzi delle tendopoli. Ne parlava come di un'urgenza, qualcosa di inderogabile.
Aprire la gente a tutte le culture, ecco cosa le stava a cuore. E così, sapeva allestire con la stessa bravura Il sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, o un'opera di Brecht o di lonesco. Molto tempo dopo, negli anni Novanta, con i suoi amici portò in scena un'opera di Wole Soyinka.
Voleva mostrare ai bambini che era possibile reinventare il mondo. Che i loro corpi potevano diventare linguaggio. Che potevano davvero essere dei re, degli eroi, dei pensatori, anche in mezzo alle macerie.
Era la loro regista, la loro guida in quel viaggio immaginario, nel quale il teatro era una forma di verità. Un modo per diventare se stessi impersonando qualcun altro. Per lei, l'arte poteva rivelare tutto, anche l'invisibile.
Ora che non c'è più, e il suo ricordo s'inabissa nella voragine della sua assenza, ogni giorno faccio l'inventario di tutto quello che lei è stata, stilando in questo taccuino logoro elenchi nei quali poi mi immergo per sentirla ancora ridere.
Hiam era:
- un vestito di cotone azzurro che indossava spesso;
- una cicatrice alla base del pollice destro;
- un modo di camminare, veloce, quasi frettoloso;
- un odore di sapone all'olio d'oliva;
- dita abili che cucivano lenzuola;
- risate;
- una canzone dei Sabreen, che lei canticchiava in cucina;
- il suo sguardo alla nascita di nostra figlia;
- il suo stetoscopio attorno al collo, e la sua camicetta.
E ora è un'assenza che si estende, che dilaga, che s'infila ovunque. Ho smesso di cercarla, mi lascio invadere da quello che ha lasciato: ricordi, frasi interrotte. Forse non è andata via. Forse è diventata il vuoto che mi circonda, quel profilo invisibile che dà forma alla mia quotidianità. E ogni volta che respiro, è il suo fiato che lei mi offre, come se la sua assenza fosse diventa ta il tessuto della mia vita. Lei non c'è più, ma continua a impregnare ogni cosa. Le ombre che scivolano sui muri al crepuscolo, il silenzio che riempie le mie notti da quando se n'è andata, il vento che soffia tra le case, le grida dei bambini che giocano. In fondo, non so se l'ho perduta o se sto trattenendola. Forse entrambe le cose.
Ma so che se continuerò a parlare di lei, a scrivere di lei, lei non potrà mai scomparire completamente. Credo che avesse ragione: io parlo troppo. E allora le chiedo di compatirmi, Julien, se non taccio e voglio farla rivivere per lei. E chiedo che anche lei possa perdonarmi. 'Noi siamo gli specchi infranti di coloro che ci hanno generato' ha scritto Jean Genet.
(Pag. 122) Non ho perdonato, ma so che esistono dei giusti. Che la pace impossibile è il dolore condiviso dei giusti da entrambe le parti.
(Pag. 126) La maggior parte dei libri che leggo e rileggo, li ho scoperti in carcere. Ognuno racconta almeno un anno della mia reclusione. E li rileggo sia per ricordare sia per comprenderli. Un grande libro è come un pozzo senza fondo. Enigmi irrisolti, e dietro la storia, un punto cieco. E a volerlo illuminare ci si perde, bisogna invece prenderlo per quello che è: la benedizione di un mistero. Capisce? Sono sicuro di sì. I libri che si amano sono quelli che non si sono compresi, o che si credeva di aver compreso ma poi, rileggendoli, si scopre che avevano un altro senso, un'altra sfaccettatura, una parte inesplorata.
(Pagg. 128-131) Spesso invisibili, vivi o morti, i tuoi genitori ti accompagnano in ogni istante della tua esistenza, senza che tu te ne renda conto. Come una prova, come un rimpianto che porterai dentro di te per tutta la vita. Non si guarisce dalla loro assenza.
Si muore ogni giorno un po' di più. I miei erano e saranno sempre una fonte dalla quale traggo la forza di risollevarmi. Mio padre era il silenzio, mia madre il rumore. E io li guardavo, ascoltavo, imprimevo nella mia mente. C'era in loro quella specie di malinconia, simile alla saudade di Fernando Pessoa. Dal loro cuore appesantito dagli anni, dalle perdite e dai sacrifici, la lezione delle tenebre arrivava ormai soltanto per accenni.
Con il passare del tempo, mio padre era diventato curvo. Reggeva il peso invisibile di tante battaglie perdute. Il suo volto segnato dal sole, dal vento e dalle onde era soltanto un paesaggio di ombre. Le sue rughe profonde tracciavano percorsi verso una memoria che non si raccontava più da tanto tempo. Spesso i suoi occhi sembravano guardare oltre il visibile, come se cercasse qualcosa che nessun altro poteva vedere: un ricordo precedente l'esilio, una promessa lontana. Forse una giustizia divina. Non voleva più saperne di parole inutili, di gesti superflui. Ogni cosa che faceva aveva uno scopo preciso: riparare una porta che non si chiudeva più, rinforzare un muro che minacciava di crollare, piantare un albero che rischiava di non sopravvivere al bombardamento successivo, ma piantarlo ugualmente. Tutto in lui era azione, necessità. Era metodico, quasi ossessionato dai dettagli. La mattina si lisciava i capelli con l'acqua, un gesto automatico, che ripeteva da decenni. Quando si infilava i sandali, li sistemava con cura.
Trovava il modo di dirci che ci amava. Lo capivamo dal suo alzarsi prima dell'alba per farci trovare un po' di calore, dai suoi incoraggiamenti ripetuti per vederci studiare, crescere, partire. Fu questo linguaggio a insegnarmi l'amore. È quello che si riesce a udire nei silenzi.
Mia madre era spesso sull'orlo dell'esplosione, ma quel vulcano era avvolto dalla dolcezza. Moto perpetuo, era sempre in piedi, sempre indaffarata. Piegava e dispiegava gli stessi panni, asciugava mille volte le medesime stoviglie, come se l'attività potesse scongiurare la stanchezza, l'attesa. Anche quando faceva cuocere il pane su una piastra in mezzo alle braci, doveva girarlo e rigirarlo in continuazione. Era la custode di un fuoco ancestrale, che riscaldava l'anima, oltre al corpo. Un po' magica come tutte le madri, aveva quella strana capacità di riempire una stanza, anche quando non c'era. A volte canticchiava, una melopea che si elevava come un'orazione nell'aria densa di polvere. Era un canto senza parole, né salmodia coranica, sé canzone profana. Forse un'eco della sua infanzia.
Di quando le loro terre erano ancora fertili e libere.
Molti ricordi precisi che ho dei miei genitori li devo a Hafez che, dopo la loro morte, scrisse pazientemente tutto quello che sapeva di loro in due quaderni diversi.
Poi me li consegnò. Parole per esprimere la sua attenzione e il suo amore. Tutti quei dettagli che a me erano sfuggiti.
(Pag. 136) Da sessantasei anni viviamo questa lotta, non abbiamo conosciuto altro, e siamo ancora qui. Fantasmi, ogni giorno un po più invisibili agli altri. E a noi stessi. Come lo siamo da sempre agli occhi del mondo.
